Intorno al lago – La riappropriazione popolare dell’area dell’ex Snia Viscosa a Roma (Marco Gissara, 2018)

Premessa

«Tu che sai fare? Tu che farai?». Sono le parole di un volantino distribuito ad aprile 2016, in occasione dell’apertura autonoma del lago ex Snia da parte del Forum Territoriale Permanente del Parco delle Energie. Con queste domande aprivo la breve introduzione alla mia tesi di dottorato, Città immaginate: il Pigneto e la sua fabbrica. Rigenerazione urbana e pratiche dal basso (Gissara, 2018).

In quell’occasione provavo a restituire il ‘perché’ di una ricerca: l’ambizione di contribuire, nel mio piccolo, a ridurre la distanza tra i bisogni ed esigenze espresse dalle persone (noi tutti), da un lato, e il patrimonio diffuso di conoscenze e passioni utili a soddisfarli, dall’altro.

Il testo che segue riporta riflessioni svolte durante gli anni del dottorato, a partire da alcune questioni generali affrontate. Tra queste, in particolare, la lettura delle caratteristiche odierne degli insediamenti umani, la coscienza delle grandi problematiche ecologiche all’orizzonte e la conseguente affinità con le tematiche del ‘diritto alla città’ (Lefebvre, 2012; Harvey, 2013) e della ‘ricostruzione del territorio’ (Magnaghi, 2010).

Ho approfondito queste tematiche con l’intenzione di dargli concretezza, leggendone le implicazioni in un contesto specifico. La scelta del caso-studio è stata naturale: una battaglia – la riappropriazione popolare dell’area dell’ex fabbrica Snia Viscosa a Roma – a cui stavo partecipando, insieme alla quale analizzare, sotto il profilo delle politiche urbanistiche, il trentennio neoliberista romano.


Urbanizzazioni insostenibili

Le caratteristiche dell’urbanizzazione contemporanea hanno poco a che fare con la sostenibilità degli insediamenti umani. Questa evidenza emerge con forza da qualunque prospettiva si osservino questi stessi insediamenti, analizzandone le caratteristiche proprie o evidenziandone il rapporto con le altre parti del territorio, urbanizzate o meno.

I dati globali (UN-DESA, 2011) restituiscono l’entità del progressivo travaso di popolazione verso le aree urbane – in meno di due secoli, i loro abitanti sono passati dal 2% a più della metà della popolazione mondiale – e la conseguente proliferazione e ampliamento dei centri urbani. D’altronde, possiamo considerare questi ultimi come una delle tante espressioni di una tendenza più ampia, leggibile confrontando l’urbanizzazione degli ultimi secoli e quella consolidatasi in precedenza. È ciò che Choay (2006) ha definito «la morte della città e il regno dell’urbano», evidenziando la difficoltà di rinvenire oggigiorno episodi di adattamento reciproco fra forme di tessuto urbano e forme di convivialità. La tendenza all’urbanizzazione diffusa e multiforme portò in passato all’elaborazione di altre ipotesi teorico-interpretative, quali la «rivoluzione urbana» di Lefebvre (1973), recentemente ripresa nei testi di diversi autori. Tra di essi, in particolare, Brenner (2016) ha introdotto negli studi urbani concetti quali «urbanizzazione planetaria», «spazio urbano senza fuori» e «paesaggi funzionali».

Figura 1

Fig. 1 – Tavola estratta da Vasi comunicanti. Una storia collettiva, striscia a fumetti presente in questo stesso volume [*].

Parallelamente a questa mutazione, nello stesso periodo si sono registrate variazioni climatiche capaci di incidere significativamente sull’ambiente dell’uomo. I fenomeni in atto sono stati recentemente analizzati e proiettati nel futuro mediante scenari probabilistici preoccupanti (IPCC, 2007). Le analisi riguardanti i consumi energetici (IEA, 2016) aiutano ad esplicitare il legame tra i cambiamenti climatici, le citate caratteristiche odierne degli insediamenti ed il concetto di sviluppo che soggiace ai modelli produttivi più diffusi, cioè una crescita economica infinita.

Intuitivamente, i contesti metropolitani sperimentati ogni giorno da molte persone sono percepibili come nocivi sotto diversi aspetti: la pessima qualità dell’aria a causa di diverse fonti inquinanti (trasporti, riscaldamenti, emissioni industriali); i rifiuti che assediano gli spazi pubblici e i parchi; il traffico e le auto in sosta che sottraggono aree utilizzabili per la socializzazione; e così via.

L’evoluzione del contesto romano corrisponde alle tendenze descritte: Roma è cresciuta incessantemente, dalla proclamazione a capitale del Regno d’Italia nel 1871 fino ad oggi. La città rappresentata nella celebre pianta di Roma di Giovan Battista Nolli costituisce un minuscolo frammento dell’odierna realtà urbana capitolina. Negli ultimi decenni, peraltro, tale espansione è continuata (Legambiente, 2011) sganciandosi dall’andamento demografico, ormai stabile, e seguendo motivazioni di carattere economico-finanziario. Le retoriche del policentrismo e della riqualificazione delle periferie hanno sostenuto le politiche in tal senso, portando all’odierno aggregato metropolitano a scala regionale ed accentuando le grandi problematiche già esistenti, per perseguire specifici interessi privati, come evidenziato da un’ampia letteratura critica (Berdini, 2000; 2005; Berdini & Nalbone, 2011; Cellamare, 2016; De Lucia & Erbani, 2016; Insolera, 2011; Moini & D’Albergo, 2015; Scandurra E., 2007; Sotgia & Marchini, 2017).


‘Mondi altri’ in movimento
[1]

Ho dedicato, nella tesi, un vasto spazio all’analisi delle recenti scelte di pianificazione nel contesto romano, per la consapevolezza del loro legame col modello di sviluppo complessivo e della loro forte influenza sulle caratteristiche di vivibilità dei luoghi. Le questioni problematiche a livello locale hanno dunque costituito una molla per la ricerca di ‘alternative’, ipotesi di trasformazione in via di realizzazione, capaci di alimentare il pensiero critico e, possibilmente, di gettare semi fecondi per altri contesti.

Mi sembra evidente, perlomeno nel contesto osservato, l’importanza di trovare l’espressione di tali alternative direttamente nella società. Le ‘buone pratiche’ portate avanti dalle popolazioni locali, le istanze su cui si fondano e le ‘città immaginate’ che prefigurano, mi sembra facciano molta fatica ad essere tradotte in politiche di portata più ampia, alla luce di questioni definibili come ‘strutturali’ che si manifestano sia nelle traiettorie di lungo periodo dell’urbanizzazione che negli orientamenti recenti delle politiche pubbliche. Ritengo, quindi, che sia utile dare più risalto e diffusione possibile alle tante esperienze ‘dal basso’, approfondendone gli aspetti virtuosi, con l’auspicio di contribuire ad alimentare e moltiplicare le pratiche esistenti, sottolineando le connessioni esistenti e possibili con le politiche.

Ho ragionato, a valle di un’analisi delle politiche urbanistiche romane dell’ultimo trentennio, sul rapporto tra ‘territori’ e spazio metropolitano, cogliendo la necessità di ripensare la capitale partendo dai singoli luoghi, dando la precedenza alla logica dell’abitare, espressione complessa che comprende luoghi, relazioni, saperi ed attività incomprimibili all’interno di mura domestiche. Lo ritengo un punto di partenza per ‘rovesciare il piano’: immaginare un policentrismo che, nell’ottica di accrescere la qualità complessiva del sistema urbano e metropolitano, si delinei a partire da ciò che esiste, implementando e diffondendo le centralità, integrandone la dimensione locale con quelle a scala più ampia, lasciando spazio al protagonismo delle persone. Una visione policentrica, dunque, mirata a (ri)costruire i territori dando spazio alle pratiche connesse all’abitare, ripartendo dal riconoscimento del ruolo degli abitanti e prendendo posizione nei confronti dei tentativi di usurparlo per mere ragioni di profitto.

Naturalmente, questo ragionamento può dirsi valido a patto di confrontarsi con i cambiamenti avvenuti nell’organizzazione sociale e nella struttura stessa delle città trasformatesi in metropoli. In questi contesti, è necessario integrare il termine ‘comunità’: ad esempio, citando Sandercock (2004), appare appropriato parlare di «comunità di resistenza». Allo stesso modo, affrontare qui l’obiettivo della (ri)costruzione del territorio, richiede di ripensare l’aggregazione sociale necessaria a tale obiettivo, uscendo da una logica prettamente stanziale e abbracciando una visione fondata sulla mobilità (Crosta, 2010), nonché di ampliare il senso dell’espressione ‘abitare i luoghi’ fino a farla coincidere con viverli, trasformarli, renderli pieni di significati e relazioni.

Il caso osservato è un’esperienza collettiva che, nata e cresciuta nel cuore della metropoli, ha mantenuto e incessantemente ricostruito il proprio ‘territorio’ nella vita quotidiana, lavorando così sulla realizzazione di una propria autonomia, necessaria a poter interagire con altri soggetti, tra cui le istituzioni, fuori da ogni subalternità. Vi si riscontra quanto espresso finora: la presenza di relazioni significative tra pratiche e politiche, l’alternativa radicale alla logica dell’espansione urbana illimitata ed il rapporto profondo tra persone e luoghi.

Quanto segue è finalizzato a descrivere e interpretare il caso stesso, mediante la divisione in due paragrafi: la ricostruzione storica e l’esperienza diretta. Prima, durante e dopo la mia ricerca, infatti, sono stato implicato e partecipe nella lotta per la restituzione all’uso pubblico dell’area del lago. Ovviamente, l’esperienza diretta e le riflessioni che da essa sono scaturite hanno influenzato anche la ‘storia’ narrata, frutto di una lettura a posteriori, basata su quanto ho potuto conoscere nel tempo.


L’ex fabbrica della Viscosa al Prenestino

Il luogo di riferimento del caso-studio osservato è un’area parzialmente abbandonata, con un passato industriale alle spalle: l’ex fabbrica chimico-tessile della Viscosa, insediatasi a Roma nel 1922, poco all’esterno delle mura storiche, lungo la direttrice di sviluppo verso est, caratterizzata dalla localizzazione di attività produttive, della via Prenestina e della ferrovia Roma-Sulmona. Lo stabilimento attrasse l’immigrazione dai paesi limitrofi e da altre regioni italiane, ampliandosi e arrivando a impiegare più di duemila persone, con una forte componente femminile. Una forte riduzione di organico, conseguente alla crisi economica internazionale, fu seguita dalla riconversione a favore della politica economica autarchica e di guerra del fascismo. Di conseguenza, nel dopoguerra lo stabilimento si avviò verso la chiusura, cessando la produzione nel 1954 e cadendo in disuso.

Figura 2

Fig. 2 – Inquadramento urbano del caso-studio considerato.

La vicenda della fabbrica, con i suoi grandi scioperi (1924 e 1949) e gli atti di disobbedienza individuale durante il regime, rispecchia il ‘corredo genetico’ degli stessi quartieri limitrofi: una storia ininterrotta di conflitti e solidarietà. Gli episodi significativi di questa tradizione sono stati tanti (Severino, 2005), dagli scioperi e le occupazioni delle fabbriche durante il biennio 1919-20 fino ad oggi, passando per la Resistenza e le grandi mobilitazioni degli anni ’60 e ‘70. Il Pigneto, primo quartiere a popolarsi, è stato da principio caratterizzato dall’aggregazione degli abitanti in comitati, dalle mobilitazioni per la realizzazione delle urbanizzazioni, dalle iniziative di solidarietà e mutualismo organizzate dal movimento dei lavoratori o da istituzioni religiose.

Vi sono poi altre peculiarità originarie giunte fino ad oggi: la forte varietà sociale di quartieri – Pigneto, Prenestino-Labicano, Torpignattara – che, a partire da una variegata composizione di classe originaria, sono stati caratterizzati proprio dalle costanti mutazioni, ravvivando l’originaria conformazione mediante successivi cicli di migrazioni; l’analoga varietà spaziale, frutto di un disegno urbano per fasi, additivo, molteplice, disomogeneo e frammentario.

Nel tempo, la città è cresciuta intorno allo stabilimento, saturando gli spazi disponibili e rendendo semi-centrale il contesto, un tempo periferico. Questa condizione ha innescato importanti cambiamenti (Postiglione, 2011; 2014; Scandurra G., 2007; Semi, 2015), tra cui un evidente processo di gentrification, peraltro incentivato da politiche pubbliche di rigenerazione urbana, materializzatosi in aumento dei valori immobiliari, espulsione degli abitanti meno abbienti, specializzazione commerciale.

Alla fine degli anni ‘80, l’area della fabbrica (ca. 12 ettari) venne liquidata e inserita nel circuito della speculazione immobiliare. La spinta alla valorizzazione economica e le condizioni critiche dei quartieri circostanti (forte densità edilizia, traffico, inquinamento, carenza di aree verdi fruibili e servizi pubblici), hanno determinato l’incessante conflitto sul destino della Viscosa tra la nuova proprietà e la popolazione. Quest’ultima, ritenendo prioritaria la conservazione della testimonianza storica della fabbrica e di un piccolo ‘polmone’ verde, ha portato avanti azioni e rivendicazioni finalizzate alla realizzazione di un parco e all’insediamento di servizi pubblici.

In seguito all’acquisto, la nuova proprietà provò subito a sfruttare economicamente l’area dell’ex fabbrica, progettando la realizzazione di un centro commerciale. A testimonianza di ciò, ancora oggi sono presenti uno scheletro edilizio e, soprattutto, il lago naturale emerso durante i lavori, quando gli scavi intercettarono una falda in pressione. Quest’ultimo avvenimento generò una catena di eventi: la proprietà provò a convogliare le acque nel collettore fognario limitrofo che, in occasione di un forte temporale, allagò i dintorni rendendo manifesto il problema. Sotto la spinta dei comitati, le istituzioni bloccarono il cantiere e, indagando sulle autorizzazioni, si scoprirono falsificazioni e irregolarità nel rilascio della concessione (Boccacci, 1995), che fu dunque annullata.

In seguito, vi furono altri tentativi speculativi (residenze universitarie private, impianti sportivi, torri residenziali), ogni volta sventati. Le mobilitazioni degli abitanti, inoltre, sono riuscite a far espropriare ed aprire al pubblico buona parte dell’area. Anno dopo anno, sono stati così inaugurati: il Parco delle Energie, area verde di quasi 4 ettari aperta nel 1997; la Casa del parco, realizzata con principi di bioarchitettura sui resti di un edificio preesistente, autogestita a partire dal 2011; il Quadrato, spazio teatrale polifunzionale gestito da cittadinanza e istituzioni mediante il Forum Territoriale Permanente, dal 2011. Un luogo, infine, costituisce il tassello a monte delle conquiste successive: il centro sociale occupato autogestito ex Snia Viscosa, nato come presidio popolare nel febbraio del 1995.

La progressiva riappropriazione dell’area è andata di pari passo col formarsi di una centralità, grazie alla persistente azione degli abitanti. In questo processo, lungo e multiforme, ho trovato numerosi aspetti degni di interesse: la progettualità di lungo periodo che, nel tempo, ha agito da catalizzatore per la partecipazione di moltissime persone; l’importanza dell’azione diretta, quale strumento immediato di riappropriazione e restituzione all’uso pubblico dei luoghi; il ruolo della memoria storica e della sua condivisione per la costruzione di una ‘comunità di resistenza’; l’autogestione come reale gestione partecipata di beni pubblici; le pratiche ‘informali’ e l’autonomia diffusa come strumenti per la moltiplicazione e diversificazione delle attività; il riconoscimento pubblico della natura ‘contesa’ dei luoghi e la conseguente presa di posizione nell’inevitabile conflitto tra utilità collettiva e interessi privati, mediante il contrasto esplicito allo sfruttamento economico dei luoghi; la dialettica, in termini di conflitto, mediazioni e convergenze, con le politiche istituzionali.

Tutto ciò è leggibile attraverso l’immersione nella vita dell’area: il passato dei luoghi è riportato nel presente dalle attività dell’archivio storico autogestito della fabbrica, con i suoi obiettivi e il suo progressivo sviluppo e ampliamento in centro di documentazione territoriale; informalità e formalità convivono, ad esempio, nei nodi organizzativi del centro sociale e del forum territoriale permanente, ‘vasi comunicanti’ capaci di gestire direttamente i beni pubblici e insieme sollecitare le istituzioni, ‘incubare’ nuove pratiche, diffondere autonomia e al contempo riunire percorsi; la quotidianità si arricchisce di progettualità organizzate e attività spontanee, per l’infanzia, il gioco, lo sport, l’arte e la cultura, in luoghi costruiti collettivamente nel tempo (ciclofficina, orto, palestra popolare, scuola di italiano, teatro, ‘ludofficina’, e così via); emerge una costante presa di parola, collaborativa o conflittuale secondo i casi, nei confronti delle politiche istituzionali, nonché la costruzione di relazioni tra le vertenze territoriali. Per il giusto approfondimento rimando alla lettura della tesi, capace di approssimare maggiormente la ricchezza presente e fornire argomentazioni adeguate alle presenti sintesi interpretative.

Nel complesso, è emersa una centralità dal valore in primo luogo ‘locale’, permeabile e attraversata al contempo da flussi di persone e questioni di portata più ampia. Il protagonismo sociale e l’attività di ‘ricostruzione del territorio’, determinano una comunità cangiante che si rinnova incessantemente, capace di cogliere, nelle questioni locali, significati e dinamiche ‘globali’.

Figura 3

Fig. 3 – Corteo per l’istituzione del Monumento Naturale Ex Snia (14 ottobre 2018). Elaborazione su foto tratta dal profilo Logos Festa della Parola.


Il ‘lago che combatte’

Il capitolo più recente di questa vicenda è quello che ho potuto osservare direttamente, a partire dal primo ingresso al lago a fine 2013: la vittoria contro un progetto che, in variante al piano regolatore, cancellava le preesistenze sostituendole con quattro torri residenziali da trenta piani ciascuna. Dopo circa un anno di iniziative, convegni, manifestazioni, sit-in, ‘invasioni’ e pressioni di ogni tipo sulle istituzioni, il comune ha finalmente concluso l’esproprio dell’area del lago nell’estate del 2014. A tale atto, il governo cittadino non ha fatto seguire una reale presa in carico del luogo, tanto da spingere le organizzazioni degli abitanti ad aprirlo, attrezzarlo e manutenerlo autonomamente a partire dalla primavera del 2016.

In questo frangente ho conosciuto, per quanto possibile, la popolazione che sta proteggendo l’area dalla speculazione per recuperarla alla fruizione pubblica. Si tratta di un insieme di persone molto vasto, poiché attinge da quartieri abitati da decine di migliaia di persone, permeabile, impossibile da mappare per via della sua composizione numerosa, eterogenea e variabile. I fruitori più o meno occasionali e, soprattutto, abitanti del quartiere, spesso attivi anche in altre battaglie, hanno contribuito in maniera differente nel tempo, secondo le proprie capacità e risorse. Si può parlare di una ‘comunità di resistenza’, in virtù degli obiettivi che si pone e del richiamo esplicito alle caratteristiche passate e presenti del contesto sociale di riferimento.

Mi è sembrato di cogliere in questa battaglia alcuni assunti decisivi, anche in relazione alle premesse generali della tesi: la necessità di adottare una logica ambientale integrata per cogliere il rapporto tra ambiente urbano e naturale, ragionando in termini ‘ecologici’ piuttosto che considerandoli -separatamente; il mix tra sapere tecnico-scientifico e altre modalità di conoscenza, il ruolo del progetto conseguente a una sua concezione rinnovata, l’importanza dell’agire pratico e diretto; la necessaria costruzione di un pensiero alternativo e di luoghi atti ad alimentarlo; le relazioni tra le persone come base di tutto.

Una premessa da ribadire è che la lotta di riappropriazione e restituzione all’uso pubblico dell’area è stata in primo luogo una questione riguardante gli abitanti dei dintorni. La vicenda del lago ha costituito, perciò, un caleidoscopio mediante il quale ho potuto osservare altre battaglie sul territorio, portate avanti per il rispetto delle diversità e in difesa di servizi pubblici, aree verdi, spazi pubblici. Ho notato il continuo rimando tra iniziative e vertenze, capace di diventare una convergenza in alcune occasioni quali assemblee, cortei territoriali, feste popolari. Queste connessioni mi hanno permesso di cogliere il forte protagonismo sociale ed il ruolo di ‘vasi comunicanti’ giocato dalle varie modalità aggregative di una società locale complessa. È evidente, poi, come il dispiegarsi nel tempo di innumerevoli ‘atti territorializzanti’, insieme alla continua azione di conoscenza, disvelamento e rivendicazione ad essi associata, abbia posto le basi concrete per l’esercizio del ‘diritto alla città’ da parte delle persone.


Passare da una logica urbana autoreferenziale a una logica ambientale integrata

Il carattere ‘locale’ della battaglia ha permesso il riconoscimento delle preesistenze e del loro valore, a partire dalla falda acquifera sotterranea. L’evidenza dell’importante ruolo giocato dalla natura in questa vicenda ha portato ad approfondire la questione nel dettaglio, mettendo in luce il processo di rinaturalizzazione avvenuto a seguito della formazione del lago, con un progressivo incremento della biodiversità. Le analisi hanno evidenziato la qualità e la provenienza delle acque, la presenza di numerose specie arboree e gli specifici habitat degli animali avvistati nel corso delle osservazioni periodiche. Gli studi sulla geologia e l’idrologia dell’area, affiancati alle conoscenze storiche, urbanistiche e architettoniche, hanno poi determinato una connessione tra i valori riconosciuti e le scelte di pianificazione auspicabili. È emerso come l’area della fabbrica, con la sua ampia superficie permeabile, svolga servizi ecosistemici fondamentali per l’assetto idraulico delle aree circostanti: in particolare, la tutela della falda e la difesa dai rischi idraulici.

Questi approfondimenti hanno aggiunto un valore scientifico alla spontanea avversione della popolazione verso la cementificazione, permettendo di mettere al centro del dibattito la convivenza tra i possibili usi antropici e la conservazione dell’ecosistema stabilitosi nel tempo. Una questione pratica che ha ricadute significative: rende possibile immaginare di un differente rapporto con l’ambiente naturale, superando la classica logica urbana autoreferenziale in favore di una logica ambientale integrata. È in questa direzione che viaggia anche una recente rivendicazione verso le istituzioni: la proposta, inedita vista la localizzazione nel cuore di Roma, di dichiarare ‘monumento naturale’ l’intera area (parco, lago, archeologia industriale).

Un simile passaggio culturale può aprire la strada a considerazioni più ampie, che partono dal riconoscimento del conflitto tra la tutela ambientale, funzionale al benessere umano, e le logiche proprie dello sviluppo capitalista e industriale, per andare oltre. Sono ragionamenti che emergono anche grazie all’individuazione di nessi con altre vicende, all’intreccio e al rimando con lotte territoriali vicine e lontane, alla coscienza dei rapporti tra questioni locali e globali. Assume perciò importanza la costruzione di tempi e luoghi (discussioni, progetti, iniziative, festival) idonei per lo scambio di idee e lo sviluppo di un pensiero alternativo.

Figura 4

Fig. 4 – Il lago ex Snia innevato (febbraio 2018).
Frame tratto da un video di Ludovico Ragno.


Con ogni mezzo necessario: saperi locali e conoscenze tecnico-scientifiche, progetto e azione diretta

La consapevolezza dei valori presenti nell’area, necessaria a immaginarne le modalità di fruizione, è stata raggiunta grazie a un felice connubio tra saperi locali e tecnico-scientifici, che qui finalmente si presentano nella loro unitarietà e complementarietà determinando nel tempo l’autonomia culturale della popolazione, anche in relazione alla capacità di leggere e interpretare la ‘macchina’ istituzionale senza rimanerne intrappolati. Ne consegue un uso ‘politico’ della tecnica, capace di tenere testa agli analoghi tentativi portati avanti dalle controparti, solitamente tesi a sfruttare la posizione consolidata di potere derivante dalla stessa conoscenza tecnica, e la possibilità di aprire a saperi pratici e contestuali altrimenti soppressi.

Nell’ambito di questi strumenti tecnici, mi sembra significativo il ruolo del progetto come tappa dell’azione, ‘ritornello’ (Decandia, 2000), per ribadire le decisioni consolidate e fare una sintesi degli spunti affiorati nel tempo. È una concezione rinnovata del progetto, come processo sociale complesso con una sua temporalità (Cellamare, 2011), che permette ulteriori sviluppi. Ho osservato proprio questo: i workshop con i bambini hanno coinvolto genitori e insegnanti; la zonizzazione in livelli di tutela ha riunito le indagini di studiosi di diverse discipline (storia, architettura, urbanistica, ingegneria, botanica, zoologia, idraulica e geologia); il concorso di idee per gli arredi ha stimolato contributi esogeni e avviato il processo di autocostruzione; la definizione partecipata delle linee guida per la progettazione è stata utile a tirare le somme su diversi temi, mediante la sintesi, l’ampliamento e la divulgazione delle conclusioni raggiunte nel tempo. Infine, decisivo è il mutuo appoggio tra progetto e azione, in luogo del dominio del primo, attraverso il coinvolgimento di abilità pratiche, tempo e strumenti.

L’azione diretta, prendendo pubblicamente delle responsabilità e realizzando atti conseguenti alle intenzioni, ha avuto un ruolo importante tanto a livello strumentale – concretizzare le rivendicazioni attraverso la riappropriazione e l’autocostruzione – quanto a livello politico, come mezzo di legittimazione sociale e pressione sulle istituzioni. La chiave di lettura fondamentale è l’importanza di raggiugere obiettivi parziali, vincendo singole battaglie. Gli orientamenti che hanno permesso di farlo sono riassumibili in ‘non chiedere il permesso’ e ‘non delegare’.


L’autorganizzazione si basa sulle relazioni tra le persone

Neanche a dirlo, anche in questa occasione si è ripetuta la costruzione di un contesto autorganizzato, così come nelle precedenti fasi di mobilitazione e nella gestione ordinaria di attività e progetti. Gli strumenti sono sempre molti: lavoro condiviso e preparazione degli appuntamenti, assemblee e riunioni decisionali aperte, dinamiche informali quotidiane, interlocuzioni e relazioni con rappresentanti politici portate avanti pubblicamente e senza subalternità.

La modalità organizzativa di tipo orizzontale, analoga a quella per lo sviluppo e la gestione delle attività accennate nel precedente paragrafo, ha determinato un’apertura al contributo di fruitori più o meno occasionali, in relazione ai propri specifici interessi, necessità e desideri. Questo aiuta le persone a superare i meccanismi di delega, rendendole protagoniste, valorizzando l’espressione individuale nella combinazione collettiva. Tale attitudine permette dunque una fruizione aperta alla diversità, determina il formarsi di un senso di appartenenza ai luoghi e mette in moto dinamiche di autogestione che disegnano una quotidianità diversa, fatta di attività accessibili perché non mercificate. Tutto questo si basa sul continuo allargamento delle reti di relazione, a partire da presupposti di garanzia (antifascismo, antirazzismo e antisessismo) che si evolvono nella conoscenza reciproca, nel lavoro comune e nella costruzione di rapporti di fiducia tra le persone.


Conclusioni

«Un lago nel cuore di Roma è nato da un tentativo di speculazione da parte di un grande ‘palazzinaro’, impedendolo». Così, in un frangente della tesi, riflettevo sulla ridondanza comunicativa della vicenda osservata, leggendo in chiave personale le considerazioni di altri autori (Maggioli&Tabusi, 2014).

Questa constatazione, d’altronde, non toglie nulla alla lettura critica della vicenda e delle singole tematiche. Tra le conclusioni possibili, perciò, ho voluto coglierne alcune che più mi premevano.

Innanzitutto, è possibile ‘generalizzare’ quanto emerso il caso-studio, trovando alcune leve di trasformazione dei contesti urbani esistenti. Ritengo che quanto osservato suggerisca di partire sempre dal riconoscimento delle forze attive e, in particolare, delle tante esperienze ‘controcorrente’ che si oppongono alla mercificazione dei luoghi e alle dinamiche di frammentazione ed esclusione sociale, mettendo in pratica la ‘partecipazione’ nella sua vera essenza: l’autogestione.

I terreni principali sono, per forza di cose, i territori e la vita quotidiana, ambiti in cui dare spazio alle individualità inserendole in un contesto collettivo, cercando e costruendo nessi, ‘coltivando’ relazioni. In più, le tante sfaccettature del caso-studio, impossibili da riportare qui integralmente, ribadiscono che per trasformare la resistenza in proposta è necessaria un’attenzione alle pratiche e alle questioni locali che non perda mai di vista politiche e problematiche più ampie.

Figura 5

Fig. 5 – Giornata di iniziative al lago per l’istituzione del Monumento Naturale Ex Snia (14 ottobre 2018). Elaborazione su foto tratta dal profilo Logos Festa della Parola.

In secondo luogo, si conferma la necessità di un rinnovamento continuo della disciplina urbanistica, con un’apertura ai tanti contributi disponibili. Credo di aver messo in luce come, nel contesto studiato, sia emersa un’intelligenza collettiva dalle esperienze degli abitanti e dei fruitori dei luoghi arricchite con le conoscenze delle diverse discipline ‘parcellari’. In questo modo è stato possibile definire (rinnovare) l’idea di una trasformazione radicalmente differente, basata sulla conservazione del patrimonio presente e sulla fruizione pubblica dello stesso. Mi sembra evidente che le problematiche globali individuate, per la loro ampia portata, necessitino di un approccio analogo.

Infine, si possono individuare possibili prospettive future negli orizzonti di contaminazione fra politiche e pratiche, con la dovuta attenzione ai rischi connessi. In particolare, ipotizzando che la trasformazione delle aree urbane esistenti assuma la centralità finora riservata all’espansione e alla nuova costruzione, assume rilievo il terreno di incontro tra politiche di rigenerazione urbana e pratiche sociali presenti nei singoli territori.

Il caso descritto, così come altri frammenti di possibilità alternative rintracciabili in altri contesti, fa emergere degli orientamenti piuttosto chiari, in contrasto con le insostenibili caratteristiche dell’urbanizzazione contemporanea. Vi si intravedono scorci delle città sostenibili del futuro: luoghi salubri, prevalentemente pubblici, collettivi, aperti e indipendenti dalle logiche di sfruttamento economico; ambiti adatti ad ospitare la creatività e la cultura; ‘territori solidali’, caratterizzati dalla diversità e dal confronto; insiemi di luoghi densi di valori – storici, culturali, sociali, ambientali – in cui le collettività e i singoli individui possano riconoscersi, capaci di offrirsi alla conoscenza e all’approfondimento continuo.

Questi orizzonti possono sembrare poco espliciti, in quanto delineati mediante indirizzi strategici piuttosto che modelli univoci. Si tratta, d’altronde, di una qualità più che di un limite, derivante da una condizione necessaria: tali ipotesi di trasformazione dei singoli luoghi saranno applicabili solo mediante il contributo centrale di chi questi luoghi li vive.

 

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Note

[1] Cfr. Zibechi, 2018

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Articolo pubblicato su Tracce Urbane nel numero 4 (2018).
Qui l’indice del numero in questione della rivista.
Singolo articolo scaricabile in pdf da qui.

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